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Recensione di Happiest Season, la romcom lesbica di Natale

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Happiest Season – da noi tradotto con l’orribile e incomprensibile Non ti presento i miei – è forse la delusione peggiore in tanti anni di romcom di Natale. Scritto da Mary Holland e Clea Duvall e diretto da quest’ultima, interpretato da Kristen Stewart e Mackenzie Davis (e un esercito di comprimari sotto utilizzati tra cui Alison Brie e Dan Levy, l’unico come sempre superlativo), il film doveva essere sulla carta la rivincita di tutte le persone LGBT+ nel vedere finalmente sullo schermo un pezzo di sé in un genere spesso molto amato e incredibilmente eteronormato. E così è stato presentato: il film rainbow-natalizio.

Happiest Season

Il coming out non è la corsa in aeroporto
Recensione di Happiest Season, la romcom lesbica di Natale

Il risultato è a dir poco deludente, non tanto – o non solo – come hanno sostenuto in moltə perché la storia si incentra sulla questione del coming out mentre noialtrə saremmo ormai prontə anche a vedere raccontate le nostre vite anche al di là di questo momento. In fin dei conti, se Happiest Season fosse stato una commedia degli equivoci intorno a un cute-coming out invece che un meet-cute, sarebbe anche perdonabile. Invece ci troviamo davanti a una romcom lesbica sul gaslighting, perpetrato sia ai danni di Abby (Stewart) che di chi guarda.

Harper (una Davis quasi irriconoscibile e totalmente sottotono a cui appioppano la più brutta parrucca mai vista dai tempi di Jacob in Twilight) decide di portare a casa a Natale la fidanzata, Abby, ma si “dimentica” di avvertirla, se non a cinque minuti dall’arrivo, che, a differenza di quanto le aveva raccontato, i suoi genitori non sanno né che loro siano una coppia né tantomeno che lei sia lesbica: ha detto loro che Abby è la sua coinquilina, e che la porta a casa perché è orfana e non sa come passare le feste.

Il problema del film è che cerca di trasformare in farsa e spunti comici (che, spoiler, non fanno ridere per niente) una situazione che ricorda più Get Out che Love, actually: nonostante Harper sappia che la sua famiglia è un covo di serpi piena di persone odiose, snob e omofobe (gente che chiama “stile di vita” l’essere lesbica – in fondo Harper ha tutte le ragioni del mondo per non aver ancora rivelato il suo orientamento), pensa comunque di portarci Abby per poi abbandonarla quasi a sé stessa in balia di persone che non fanno altro che metterla a disagio, peraltro rimarcando a ogni pié sospinto che – oh com’è divertente – è una povera orfana.

Ben lungi dall’essere una riflessione sull’omofobia interiorizzata di Harper o sui danni dell’eteronormatività, o anche soltanto una buffa serie di equivoci dove le protagoniste tentano di superare insieme le feste nell’armadio, il film è un’incredibile sequela di cattiverie condite con un abbondante gaslighting indirizzato alla povera Abby che viene costantemente sminuita e trattata male perché “non sa comportarsi” e che tenta di giustificare i comportamenti assolutamente odiosi della fidanzata, a cui peraltro pensava di chiedere di sposarla.

Happiest Season

Nel tentativo supremo di farci empatizzare con Harper, il film tenta a un certo punto di usare il coming out come spunto narrativo romantico: riuscirà Harper a dirsi lesbica e a vincere la sua bella? In questo tentativo di trasformare il coming out nel re dei tropi della romcom, la corsa in aeroporto, il film supera i livelli accettabili di gaslighting nei confronti anche di chi guarda. Sprecando un bellissimo monologo di Dan Levy (che consigliamo di vedere togliendo tutto il resto) per un mirabolante momento sembra quasi che la cattiva di turno sia proprio Abby che “pretende” il coming out da Harper che non è ancora pronta.

Poi però è Natale, e tutti vissero felici e contenti e con le bandierine arcobaleno del pride: i mostri erano tali solo perché ingabbiati da una vita di convenzioni. Fiuuu, menomale perché a vederli così sembravano solo una manica di stronzə. Se concordiamo appieno con chi dice che si lasciano correre fiumi di immagini mediocri prodotte da maschi etero-cis-bianchi e non si perdona mai niente ai film che tentano di offrire maggiore rappresentazione dietro e davanti alla telecamera alle soggettività minoritarizzate, non è proprio sopportabile che questa sia l’unica ragione per cui dovremmo tifare per un film che se fosse stato fatto da un regista maschio-etero-cis-bianco ne avremmo chiesto la testa su una picca per bruciarla l’ultimo dell’anno.

Grazie 2020 per averci regalato anche la romcom sul gaslighting queer di Natale.

Lucia T.
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